Ci formammo che si era d’estate ma per il battesimo del palco passò qualche mese: fino al 19 dicembre di quello stesso anno. Da allora la nostra storia non è stata tanto diversa dalle storie di tutti gli uomini, musicisti compresi, ed ha alternato momenti spensierati, talvolta esaltanti, ad altri difficili, anche molto, ed incerti quando non faticosi. Ma siamo andati avanti!
Avremmo voluto prendere lo slancio e saltare all’ultima riga, per consegnarvi il lavoro, i progetti, il racconto di questi ultimi tempi, e scampare in questo modo alla trappola delle celebrazioni. Così facendo, però, avremmo mancato di rispetto a troppi fra i compagni di viaggio che abbiamo avuto, anche in stagioni ormai remote.
Primo fra tutti, Antonio Costa. A lui, alla sua caparbietà, va ascritta la nascita dei Bertas, e fra quanti volle coinvolgere, come secondo citiamo il fratello Carlo, che dal gruppo si è separato soltanto – perché gli anni passano e si fanno sentire anche se non vorresti ascoltare – il 16 dicembre 2016, suonando con noi per l’ultima volta.
Ad Antonio si devono specialmente l’attenzione e l’amore per la polifonia, rigorosamente in carattere con le peculiarità musicali dei sardi e così largamente praticata nella nostra isola. Un’attenzione, questa, che non è mai venuta meno negli anni, in noi, nemmeno per un attimo.
Fu lui ad iscriverci al concorso musicale (Sardegna Canta, nel 1966) che ci segnalò alla RCA e ci condusse al primo contratto discografico.
Erano le stagioni del beat, ed avemmo fortuna. Potemmo incidere Fatalità (in italiano prima e quindi in spagnolo; per la Spagna, appunto, ed i paesi dell’America Latina), con la quale scalammo le classifiche di vendita e, a breve distanza di tempo, Dondolo, che altro non era che una cover della celebre Sound Asleep dei Turtles.
Sempre lui, fra qualche incredulità, ci propose (ed era il 1975) l’incisione della prima canzone in limba. Un successo tutto regionale – se vogliamo – ma di una tale portata da cambiare, e lo scriviamo non senza un comprensibile moto d’orgoglio, la storia della musica leggera in Sardegna.
Alla quasi totalità del pubblico, infatti, in principio sembrò una scelta stonata, inappropriata. All’epoca si cantava prevalentemente in inglese e, quando in italiano, non poche fra le canzoni eseguite e messe in commercio dai complessini (come si diceva allora!) erano più o meno riusciti adattamenti, da quella lingua, di composizioni già famose.
Quella canzone si intitolava Badde Lontana.
Ora può far sorridere ricordare che, sull’onda della popolarità successivamente acquisita dal brano, ci fu chi ne rivendicasse l’appartenenza al repertorio tradizionale, mentendo sapendo di mentire.
In qualche modo, altresì, seppure senza volerlo, ci fece un complimento: Badde Lontana entrò d’impeto nel sentimento musicale comune ai sardi, recando la nostra firma, correttamente.
Antonio Costa, sul finire del 1979, accettò l’offerta di dirigere la Corale Luigi Canepa, un’importante polifonica della nostra città, Sassari, lasciando definitivamente i Bertas, e non solo la line up live, come già accaduto fra il 1972 e il 1976.
Scrivendo di Badde Lontana non possiamo non ricordare Giuseppe Fiori, che ebbe la parte solista in quel primo autarchico 45 giri, e che da batterista fu in organico al gruppo per oltre dieci anni.
Non sarebbe possibile dimenticare, inoltre, Eugenio Romano, che gli subentrò nel 1980 e seguì il nostro stesso tragitto, per quanto intervallato da alcune interruzioni di militanza, per più di vent’anni, fino alla conclusione dell’estate del 2005, al termine della quale scelse di abbandonare.
Gli anni della RCA richiedono qualche appunto, e vanno divisi in due riprese.
La prima, di cui qualcosa si è detto, ci portò a sfiorare il Festival di Sanremo (nel 1968), in coppia con Mal dei Primitives, e, oltre che a fare la conoscenza con una nutritissima schiera di astri nascenti ed artisti affermati, ci guidò negli studi della RAI per Settevoci, condotto da Pippo Baudo, e poi Chissà chi lo sa, che era invece presentato da Febo Conti, per finire con Giochiamo agli anni ’30, dove avemmo il piacere di incontrare Ombretta Colli e uno straordinario Giorgio Gaber.
Nel 1970 una nostra canzone – Vieni Via Con Noi – fu anche scelta per fare da sigla a un programma che si intitolava Ci sai fare?.
Ed è sempre allora che, per ragioni contingenti od esistenziali, forse, per una sfortunata coincidenza, per mancanza di ambizione, anche, o di lungimiranza, i Bertas non registrarono L’Ora Dell’Amore (che andò ai Camaleonti) o Sognando La California (che fu portata al successo dai Dik Dik).
La seconda (tragica, direbbe bene Fantozzi) esperienza seguì la composizione di Badde Lontana, della quale la casa discografica volle incidere, forzando la nostra volontà, una versione in italiano che niente aveva a che vedere con la stesura originale della canzone, ed anzi, ci pare, la deturpava.
Vorremmo poter dimenticare tutto di quell’episodio ma abbiamo, fra la sterminata sequenza di aneddoti che non è possibile riportare, almeno un ricordo piacevole, che cancellò per sempre Valle Lontana dalla nostra piccola storia. Quello di un concerto a Reggello nel quale, contravvenendo alle disposizioni di scuderia, cantammo la canzone così com’era, col testo in sardo, vincendo la tappa del concorso canoro itinerante cui partecipavamo, ed era il Cantagiro.
Quella volta, crediamo, avemmo ragione di tornare a casa.
Non faremo – ora – l’elenco delle persone, dei musicisti, che hanno suonato con noi: specialmente nei primi tempi qualche avvicendamento c’è stato. Di tutti abbiamo un buon ricordo, per fortuna, ma alcuni, partendo da quegli anni ’70 (dai Primibertas, come scherzosamente si dice a Sassari), un ricordo non sono mai diventati, perché ancora ne fanno parte: Mario Chessa (dal 1970), Marco Piras (che era poco più che un ragazzo, quando iniziò, nel 1974) ed Enzo Paba (erano gli ultimi mesi del 1974 e proveniva dai Savages, dei quali era stato cantante e frontman, ruolo che ha degnamente mantenuto al nostro interno).
Sono loro a rappresentarci con pienezza, sono quello che siamo, nel bene come nel male, tutti insieme da quasi sessant’anni.
Loro fanno sì che i Bertas esistano ancora.
Gli ultimi spiccioli degli anni ’70 e il decennio successivo non sono stati il nostro momento migliore, certamente, se si eccettua la divertente parentesi vissuta grazie a Franco Godi (con la colonna sonora di Africa dolce e selvaggia, e un paio di jingle pubblicitari) e l’impegno che portò alla realizzazione di Unu Mundu Bellissimu, nel 1987, al quale lavorammo sotto la guida di un bravissimo Mark Harris, convinto appassionato di tradizione e musica sarda (Enzo Jannacci, Pino Daniele, Fabrizio de André, e innumerevoli altre collaborazioni, nel suo bagaglio artistico).
Un lavoro che – va detto – non incontrò comunque i favori del pubblico. Un album nel quale interpretavamo alcuni fra i canti più noti della tradizione isolana, elaborati in chiave elettronica, ma pur sempre riproposti mantenendoli nel solco della coralità alla quale avevamo necessariamente continuato a fare riferimento.
Va riconosciuto, però, che ci trovavamo alla ricerca di un cambiamento, nel mezzo di una fase di transizione, e persino di confusione, ad essere sinceri. Ma il vigore, la voglia di fare di Mario Chessa e Marco Piras, in particolare, spingevano verso nuovi mondi musicali, ai quali cercavamo di aprirci: sentivamo pressante il bisogno di mutare pelle, forse per non morire.
Fu così che arrivammo ad Amistade, nel 1993, con uno spostamento radicale di scrittura, di baricentro, di asse, quasi una sorta di rifondazione. Ci arrivammo timidamente, come in punta di piedi, ma avevamo torto. Amistade, e Como Cheria, che risultò il brano di punta dell’album e numerosi musicisti sardi ci hanno fatto l’onore di interpretare ed incidere, cancellarono ogni timore, e ci restituirono l’affetto del pubblico. Ricordiamo con particolare piacere, e per il riscontro ottenuto e per le circostanze delle esecuzioni, le esibizioni di Ichnos a Sedilo, nella prima affollatissima edizione della manifestazione, ed il Concerto per la sfortunata ed eroica Emanuela Loi, all’Anfiteatro Romano di Cagliari.
È con Amistade, appunto, che i Bertas inaugurano un nuovo corso, mettendo da parte le cover ed affidando alla propria musica la buona o cattiva sorte dei concerti.
Così, cinque anni dopo, poté maturare il tempo di nuove canzoni, che furono affidate non ad una soltanto ma a due produzioni discografiche distinte: 30 (cd semi antologico) e Tottumpare. Quest’ultimo, fra tutti i titoli dei Bertas quello che ha avuto a tutt’oggi il miglior risultato di vendita, era il resoconto di alcune esibizioni live nelle quali ad affiancarci avevamo la Corale Antonio Vivaldi, una polifonica sassarese diretta dal Maestro Daniele Manca.
Tottumpare esiste ancora oggi ed è continuamente richiesto e riproposto. Evidentemente abbiamo avuto la fortuna di indovinarne la formula, sia per quanto attiene l’impianto sonoro che i non trascurabili aspetti scenografici. Fu con Tottumpare, fra l’altro, che i Bertas divennero il primo gruppo di musica leggera a ricevere ospitalità al Teatro Comunale di Cagliari, laddove, sino a quel momento, si erano portati in scena esclusivamente spettacoli lirici o sinfonici.
Dalla Corale Vivaldi, e siamo al 2002, passammo poi a un gruppo vocale di sedici elementi (alcuni con un proprio retroterra musicale definito e significative esperienze alle spalle) e, nel tentativo di confermarci nella ricerca di ulteriori campi espressivi, una piccola orchestra da camera, a dirigere i quali chiamammo il Maestro Stefano Garau.
Lo spettacolo, Coros in Coro, fu replicato per due stagioni.
Non fu semplice metterlo in scena, in ragione del costo e della complessità dell’allestimento, ma è da lì che sono scaturiti, dopo Sa Vida Est Mama (sempre del 2002), gli arrangiamenti per il cd celebrativo che vide la luce quattro anni dopo. Quel cd si intitolava Bertas, semplicemente, e veniva a chiudere il capitolo dei nostri primi quarant’anni di vita musicale.
La stampa e la distribuzione furono affidati al quotidiano La Nuova Sardegna e il risultato fu straordinario, per quanto ci riguarda. Perché fu apprezzato, e perché a cantare e suonare con noi le nostre canzoni, si erano prestati gratuitamente le Balentes (Sa Corte), la Corale Canepa (Badde Lontana, Pensende A Tie), i Cordas & Cannas (Amistade), Paolo Fresu (Comandante), Piero Marras (Badde Lontana), Franca Masu (Arbores), Marisa Sannia e Gavino Murgia (Chie Ses?), i Tazenda (Como Cheria).
Ancora nel 2006, su iniziativa e proposta della Corale Canepa e di Antonio Costa, che la dirigeva, iniziammo a comporre, dividendoci le competenze, i brani di Sa Missa, che daremo alle stampe l’anno seguente.
Era quello un tentativo comune di vestire con sonorità pop e richiami che spaziavano dal gregoriano alla musica lirico-sinfonica l’ordinario della Messa Cantata, servendoci del sardo logudorese per i testi.
Trattandosi d’un compito che altissime firme della musica colta si erano assunte prima di noi, si può facilmente immaginare con quale e quanta cautela ci siamo accostati alla materia.
Ed è stato con Sa Missa che abbiamo portato la nostra musica oltre il territorio nazionale, in Brasile, e furono sei concerti, ed a Londra.
Nel 2010, ed era tempo, abbiamo finalmente coronato il sogno di realizzare un concerto natalizio, il nostro Christmas Carol, ancora una volta insieme con la Corale Vivaldi.
C’è poi il Tributo a Brian Wilson che abbiamo portato in teatro, per la prima, nel maggio del 2012.
Brian Wilson è stato – è – il compositore dei maggiori successi dei Beach Boys, un gruppo il cui nome forse non a tutti oggi dice qualcosa. Non fu così negli anni settanta, invece, quando condusse una personale, e del tutto amichevole, battaglia coi Beatles, che si consumò una hit dietro l’altra. Per l’omaggio che abbiamo voluto tributargli abbiamo dovuto arricchire il nostro organico di un percussionista, un tastierista e due vocalist, in aggiunta ai tre che abitualmente ci seguono, ormai da oltre quindici anni. Ne è valsa la pena.
Chi volesse accostarsi alla sua musica la riscoprirebbe eternamente attuale, come è – sempre – delle opere di valore. Scoprirebbe anche la parabola di un artista, e di un uomo, combattuto fra l’esuberanza del genio e il male di vivere. Nella sperimentazione vocale, nella eccezionale ricerca che ha portato avanti per decenni, e che ha ripreso una volta che si è ritrovato, abbiamo avvertito non solo quel male di cui abbiamo scritto, ma insieme la gioia, dello stesso vivere.
Quando, nel buio del teatro, abbiamo sentito lo scrosciare ritmato degli applausi che giungevano da un pubblico che di lui, in buona sostanza, sapeva poco o nulla, ci siamo sentiti a posto con la nostra coscienza, noi che a quei ricami vocali, a quella ricerca, dobbiamo tanto.
Perché questi ultimi sono stati gli anni dei progetti pensati soprattutto per i teatri, con i concerti tematici sul progressive, su Giorgio Gaber, su Fabrizio de André, e la tavola rotonda cui abbiamo partecipato su invito dell’intellettuale Luigi Manconi (il quale ha coltivato da vero maniaco una smodata passione per la musica leggera) e il contestuale concerto al Civico di Sassari, condiviso col cantautore sardo-milanese Ricky Gianco; e gli spettacoli per Emergency e Telefono Amico, o Mondo X, o Freemmos, solo per citarne alcuni.
Sono stati, anche, gli anni di un incontro dal sapore particolare: quello con Renzo Arbore, conosciuto il 14 maggio del 2013, a margine della presentazione della biografia Renzo Arbore. Vita, opere e (soprattutto) miracoli scritta dal giornalista Gianni Garrucciu.
A lanciare la nostra Fatalità era stato infatti proprio un Arbore forse trentenne, dagli studi radiofonici della RAI, e più precisamente dai microfoni di Per Voi Giovani. Quasi un viaggio nel tempo, almeno per noi, di andata e ritorno. Ci è parso strano, oltre che emozionante, chiudere questo cerchio e scambiare due parole di persona con l’uomo ed il professionista garbato che tante volte ci aveva coinvolti e divertiti dallo schermo. Ed è stato sorprendente, quasi da non credersi, riceverne l’offerta di suonarla ancora, nel bel mezzo del concerto che avrebbe tenuto, la sera stessa, al Teatro Comunale di Sassari, accompagnato dall’Orchestra Italiana.
Certamente un episodio indimenticabile della nostra lunga carriera.
E non possiamo trascurare, ovviamente, di raccontare i festeggiamenti per il nostro 50° anno di attività – le nozze d’oro con la musica che non abbiamo tradito proprio mai. Li abbiamo festeggiati sempre al Teatro Comunale di Sassari, nel dicembre del 2015, naturalmente con un concerto e circondandoci di buoni amici, non potendo desiderare di meglio.
Con noi, e con le nostre canzoni, avevamo: Ambra Pintore (Anima nera), i Cento (Sos Armuttos), i Clàmor (Arbores), Ester Formosa & Elva Lutza (Badde Lontana), i Niera (Sa Vida Est Mama), gli Ouverture (Fatalità), Joe Perrino & MissClod (Cantare Cantare Cantare) e Francesco Piu (Como Cheria).
E siamo infine giunti a Cambia il Mondo, e quindi a Non si Vive una Volta Sola, gli ultimi album incisi, rispettivamente nel 2018 e nel 2021.
Cambia il Mondo per i 16 brani originali che lo compongono, tenuti assieme dall’unico comune denominatore della coralità, che fa da ponte fra tematiche e riferimenti musicali e letterari altrimenti diversi fra loro: dalla tradizione melodica all’hip-hop, dalla canzone d’autore alla sperimentazione elettronica; da Simone Weil a Dostoevskij.
Escursioni nell’intimità del sentimento, quadri minimali o sociali, narrazioni favolistiche, tributo a figure scomparse, di sconfitti, di povera gente come di eroi moderni, che sfiorano l’epica del racconto, talvolta reincarnandosi nella leggenda. Sono – questi – eroi per caso o per scelta, che la vita ha divorato, ma che a vivere non hanno mai rinunciato. I magnifici perdenti ai quali ci inchiniamo.
Così pure Non si Vive una Volta Sola, che si è incamminato sul medesimo percorso (con l’unica eccezione della rivisitazione di Como Cheria, funzionale all’uscita del videoclip ad essa dedicato), riprendendone gli umori e portando a termine, per lo più, alcune canzoni che erano state già abbozzate in precedenza: un po’ perché erano importanti per noi, un po’ perché costretti dalla pressione che la pandemia da Covid-19 ha esercitato sulle nostre vite, come su quelle dell’intero genere umano, nel complicatissimo anno appena trascorso.
È accaduto così che, nella ricerca di strade meno battute, di altre esplorazioni, di un continuo rinnovamento – e sembrerà strano affermarlo in Italia – ci siamo imbattuti nell’italiano: che è anche la lingua dei libri che amiamo, e di tanti inarrivabili poeti della canzone che ci spingono ogni giorno oltre l’orizzonte di casa.
Ieri, quando nessuno cantava in limba, l’abbiamo sostenuta a dispetto di qualche naso storto, perché credevamo nella sua bellezza e musicalità, prima ancora che per assecondare una nascente spinta identitaria; oggi, in tempi in cui il sardo, in tutte le varianti possibili, dilaga nel mondo sardista della canzone, spesso per conformismo più che per scelta, ci stiamo riappropriando di una parte di noi, una parte che reputiamo significativa e importante.
Quella che ci permette di essere qui a parlare con tutti, dalla nostra terra; o meglio: dalle nostre terre.